Avete un gatto? O dei gatti?

Avete un gatto? O dei gatti?  

Quelli dormono, ragazzi. Possono dormire venti ore al giorno e hanno un aspetto meraviglioso.  Loro lo sanno che non c’è niente per cui agitarsi.

Il prossimo pasto. E qualcosina da uccidere qua e là.

Quando mi sento lacerato dentro, mi basta uno o più dei miei gatti.

Sono nove. mi basta guardarne uno mentre dorme o sonnecchia per rilassarmi.

Per me la scrittura è come un gatto. Mi consente di affrontare tutto il resto. Mi fa sbollire. Almeno per un po’.  Charles Bukowski

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“Io/ non amo le poesie tenere sui/ gatti/ ma ne ho scritta una/ comunque”. Perché Charles Bukowski non amava le parole tenere, ma i gatti sì. Le donne, l’alcol, e i felini: ne aveva sempre qualcuno in casa, magari due, magari quattro, a un certo punto perfino nove.

“I randagi continuano ad arrivare e non ce la sentiamo di mandarli via”, scriveva in una lettera a Louis Webb, a proposito di sé e della moglie Linda Lee. “Dobbiamo smetterla però. ‘Sti maledetti gatti mi svegliano presto alla mattina perché vogliono uscire… Ma sono animali meravigliosi e bellissimi. Matti scatenati”. Ovvio che non smettesse. Ovvio che non potesse non amarli, ammirarli: “Sono i miei maestri” dichiara negli ultimi due versi de I miei gatti, che insieme a una serie di poesie e stralci di saggi e lettere si possono leggere in una raccolta di scritti (in gran parte inediti, o pubblicati su piccole riviste a tiratura limitata; tutti riproposti in una versione fedele ai manoscritti originali.

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“Un gatto è semplicemente se stesso. Ecco perché quando cattura il povero uccello, non lo molla più”. Il gatto “è la bellezza del diavolo”, i gatti di Bukowski hanno occhi gialli, malvagi, qualche volta sono gialli loro stessi (c’è una gatta “gialla come il sole”, che lo aspetta sempre su una scala antincendio per strusciarsi sulla sua gamba); sono gatti picchiatori e picchiati, gatti che si feriscono e finiscono dal veterinario, spietati come da loro natura: “Un gatto ti mangerà quando morirai. Non importa quanto abbiate vissuto insieme” scrive in una lettera a Sheri Martinelli, nel dicembre del 1960. Però Bukowski ci viveva eccome e scriveva con loro accanto, o sulle spalle, o sui tasti, nelle sue nottate alcoliche, coi mici che “corrono sui fogli dattiloscritti sparsi/ lasciandoli spiegazzati e con piccoli buchi sulla / carta.// poi/ saltano dentro allo scatolone delle lettere che ricevo dalla/ gente/ ma non rispondono, gli ho insegnato/ bene” (Una poesia genuina per te).

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